Il divieto di produzione di “nuovi documenti” in appello dopo il vaglio della Corte Costituzionale02 Aprile 2025
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La formulazione della norma dopo la riforma del 2023 L'art. 58, D.Lgs 546/92, come novellato dal D.Lgs 220/2023, rispondeva al principio espresso dall'art. 19 lett. d, L. 111/2023 di rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo. La norma, nella versione ante 2023, consentiva la produzione di “nuovi documenti” in appello senza limiti. Essa era stata sottoposta più volte, nel corso degli anni, al vaglio della C.Cost. che aveva ritenuto la previsione della producibilità di nuovi documenti in secondo grado un temperamento disposto dal Legislatore sulla base di una scelta discrezionale, e, come tale, insindacabile. Con la riforma, nel processo tributario in appello, non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il Collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Per il requisito dell'indispensabilità, poiché la norma ricalca la previgente disciplina civile, si deve far riferimento alla c.d. indispensabilità ristretta, come delineata dalle S.U., cioè quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio. Il concetto di causa non imputabile, la cui valutazione è demandata al giudice che deve darne motivazione, deve essere ricondotto a ragioni ascrivibili a circostanze estranee alla sfera di controllo dell'interessato e non può essere dilatata sino a ricomprendere fatti dipendenti dalla mera negligenza organizzativa della parte. A questo, fa seguito, come bilanciamento, la possibilità di proporre in appello motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati (art. 58, c. 2, D.Lgs 546/92), possibilità in passato esclusa. Critica per le parti pubbliche era stata l'introduzione del c.3, dell'art.58 D.Lgs 546/92, dove l'incipit “non è mai consentito” lasciava pochi dubbi interpretativi su una disposizione prevalente rispetto a quelle dei commi precedenti. Nella versione originaria, infatti, la norma vietava il deposito delle deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, e le notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità; questo anche qualora il giudice li avesse ritenuti indispensabili. La disposizione era stata ritenuta applicabile anche ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal 5 gennaio 2024, come prevedeva l'art. 4 D.Lgs 220/2023, e l'elencazione dei documenti doveva intendersi come tassativa L'approccio della Giurisprudenza e i rinvii alla Corte Costituzionale All'indomani dell'entrata in vigore dell'art. 58 D.Lgs 546/92, nelle CGT 2° grado, si è sin da subito posto il problema dell'applicazione del c. 3, soprattutto perché, in vigenza della precedente formulazione, si era formato un indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui il documento irritualmente depositato in primo grado sarebbe comunque utilizzabile dal giudice in appello, nonostante l'inosservanza del termine per il deposito, anche in sede di gravame. A fronte dell'eccezione di inammissibilità dei documenti indicati nel c. 3, cit., non sono mancate le sentenze di merito che hanno ritenuto sin da subito pienamente applicabile la novella legislativa (CGT 2° Campania 17 settembre 2024 n. 5401), dichiarando l'inammissibilità del deposito, anche nell'ipotesi in cui il contribuente appellato non si fosse costituito (CGT 2° Calabria 17 settembre 2024, n. 2398). Isolata appariva la posizione di chi riteneva che la soluzione dell'immediata applicazione dell'art. 58 c. 3 D.Lgs 546/92 fosse in contrasto insanabile con la tutela del legittimo affidamento delle parti, sebbene per le norme processuali, in assenza di altra specificazione, operi il principio tempus regit actum (CGT 2° Campania 23 settembre 2024, n. 5476). Con l'ordinanza CGT 2° Campania 9 luglio 2024 n. 1658/16, la Corte sollevava d'ufficio la questione di legittimità costituzionale del c.3 dell'art. 58; per i giudici, la norma contrava con l'art. 3, comma 1, Cost. , unitamente agli artt. 102, c. 1, 111, c. 1 e 24, c. 2, Cost. , in quanto priverebbe il giudice del potere di delibazione sulla “indispensabilità” dei documenti nuovi che il c.1 espressamente gli concede. Secondo i remittenti, inoltre, il comma in esame era in contrasto con l'art. 111, commi 1 e 2, Cost. , in quanto determinava una disparità tra i poteri processuali concessi al privato in sede di gravame e quelli concessi alla parte pubblica. Anche la C.G.T. 2° Lombardia 27 settembre 2024, n. 199 sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 58 co. 3, D.Lgs. 546/92 con riferimento agli artt. 3,24 co. 2, 102 c. 1 e 2 Cost. La Corte lombarda riteneva in particolare che la questione dovesse essere affrontata limitatamente all'applicazione della nuova disciplina durante la fase transitoria e, in particolare, ai ricorsi in appello proposti contro sentenze di primo grado emanate quando le parti non sapevano che in appello non avrebbero più potuto produrre determinati documenti successivamente inseriti nel c. 3, art. 58 D.Lgs. 546/92 e che, comunque, la produzione di documenti in appello, non sarebbe più stata una facoltà della parte, essendo divenuta possibile solo al ricorrere di alcuni presupposti (art. 58, c 1). La Corte rilevava come la norma censurata non trovasse alcun fondamento nella legge delega e nemmeno nella relazione illustrativa che neppure accennava al divieto “assoluto” di depositare in appello specifici documenti. La disposizione, quindi, appariva per irragionevole ed illogica specialmente se si considera la mancata previsione di una dilazione nel tempo dell'entrata in vigore del divieto. La decisione della Corte Costituzionale Con la sentenza 27 marzo 2025 n. 36, la C. Cost. dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 58, c. 3, D.Lgs. 546/92 limitatamente alle deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti. Dichiara, inoltre, l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, c. 2, D.Lgs. 220/2023, nella parte in cui prescrive che le nuove regole sulle prove in appello si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a far data dal 5 gennaio 2024, il giorno successivo all'entrata in vigore di detto decreto. La C. Cost, in accoglimento dell'eccezione sollevata dalla CGT 2° Lombardia, ha ritenuto irragionevole la norma, in quanto la novella, sebbene formalmente operi per il futuro, in realtà incide sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi in giudizi iniziati in vigenza della precedente normativa e ancora in corso, così ledendo l'affidamento delle parti nella tutela di posizioni legittimamente acquisite. Per effetto dell'intervento della C.Cost., quindi, la disciplina delle prove in appello dettata dall'art. 58 D.Lgs. 546/92, come novellato, si applica ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all'entrata in vigore D.Lgs. 220/2023. Venendo alle eccezioni mosse al c. 3, le CGT avevano la questione di illegittimità costituzionale in riferimento agli artt 3, c. 1, 24, c. 2, 102, c.1, e 111, c. 1 e 2, Cost, ma la C. Cost. ha ritenuto di dover fare delle distinzioni censurando la norma solo per quanto attiene le deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, e non con riferimento alle notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità. Nella sentenza C.Cost. 27 marzo 2025 n. 36 viene sottolineato come con la riforma (si veda D.Lgs. 220/2023), il legislatore ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato dal riconoscimento della facoltà, per le parti, di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado. A fronte di questa scelta, per la Corte, la deroga alla regola della limitata acquisibilità di nova istruttori introdotta per le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere risulta priva di una ragionevole ratio distinguendi. I giudici riconoscono che la sottrazione di tali documenti al regime generale, persegue la finalità deflattiva di limitare ulteriormente il materiale cognitivo acquisibile in appello, ma non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive – strutturali, effettuali e funzionali – degli atti esclusi, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, possa costruire una disciplina diversificata. Il divieto assoluto di produzione dei documenti con i quali si fornisce la prova della legittimazione sostanziale o processuale per la Corte altera la parità delle armi, in quanto sottrae una facoltà difensiva alla parte che, in base al thema decidendum, sia chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio. La nuova disciplina, quindi, laddove ne inibisce il deposito, anche quando si sia trattato di una omessa produzione incolpevole in primo grado, comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova; in tali ipotesi il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi istruttori che non siano stati introdotti per causa non imputabile alla parte in primo grado. Il divieto di deposito delle notifiche, invece, non contrasta con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3, c. 1, Cost. né lede il diritto alla prova ex art. 24, c. 2, Cost. e al contraddittorio ex art. 111, c. 2, Cost. sia quando esse risultino indispensabili ai fini della decisione sia nell'ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento in primo grado per causa ad essa non imputabile. Il legislatore, secondo la Corte, in tal modo ha voluto evitare che, nelle controversie in cui si faccia questione dell'esistenza o della validità delle notifiche, il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure. Questo in quanto “l'atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall'amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere” (C.Cost. 27 marzo 2025 n. 36). Un principio quest'ultimo che non può non condividersi. Considerazioni La sentenza C.Cost. 27 marzo 2025 n. 36, lascia qualche perplessità, soprattutto se si fa un raffronto con altre sentenze della Corte dove vengono analizzati temi analoghi. Le considerazioni della Corte in merito alle notifiche degli atti ed alle sue criticità, riportano alla mente la posizione della stessa in tema di impugnazione del ruolo e della cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata conosciuta mediante l'estratto di ruolo (C. Cost. 17 ottobre 2023 n. 190), con la differenza che in quella decisione la Corte non ha mai operato alcun distinguo in merito alle cause legittimamente instaurate dai contribuenti prima dell'entrata in vigore dell'art. 12 comma 4 bis, DPR 602/73, per avendo anche questa norma la funzione di limitare il proliferare di un certo contenzioso, come l'art. 58, c. 3 D.Lgs 546/92. Eppure nell'altra decisione, più di questa, la problematica dello ius superveniens era da valutare con maggior rigore dato che le regole introdotte con la legge sopravvenuta andavano ad incidere sulle condizioni dell'azione e, quindi, fisiologicamente ad incidere su tutti giudizi in corso determinandone l'inammissibilità. Lascia molto perplessi, inoltre, la distinzione operata dalla Corte in merito alle deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti soprattutto sostanziali, in quanto questi costituiscono il substrato dell'agire della PA, sono atti che le parti pubbliche hanno a disposizione sin da subito, e devono esistere ancor prima dell'atto che il contribuente andrà ad impugnare. Anche per essi non è configurabile, sul piano logico, né l'ipotesi in cui il detti documenti vengano ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado, né quella in cui l'amministrazione venga a conoscenza della loro esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione al pari delle notifiche. La sentenza C.Cost. 27 marzo 2025 n. 36, in conclusione, a parere di chi scrive, vuole apparire più salomonica di quanto in realtà sia. La palla ora viene lasciata ai giudici di merito per l'applicazione del divieto di nuovi documenti in appello di cui al c. 1, art. 58, D.Lgs 546/92. |