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Licenziamento per GMO: illegittimità costituzionale del carattere manifesto dell'insussistenza del fatto


20/05/2022 | Paolo Patrizio

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale del carattere manifesto dell'insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 18, c. 7, L. 300/70). Tale requisito infatti si presta a incertezze applicative da parte del giudice e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento (C.Cost. 19 maggio 2022 n. 125).

Il caso

Con ordinanza del 6 maggio 2021, il Tribunale di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18, c. 7, secondo periodo, L. 300/70 (meglio nota come Statuto dei Lavoratori), come modificato dall'art. 1, c. 42 lett. b), L. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), per violazione degli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 Cost.

Le censure si incentrano sulla disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), che richiede il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione.

La Corte Costituzionale (C. Cost. 19 maggio 2022 n. 125), nel ritenere fondata la questione formulata in relazione all'art. 3 Cost., dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, c. 7, secondo periodo, L. 300/70 limitatamente alla parola «manifesta».

Ripercorriamo, brevemente, i passaggi salienti della decisione della Consulta.

Il contrasto ai parametri costituzionali: disparità di trattamento e onere della prova

Secondo il Tribunale ravennate sette sarebbero i motivi di contrasto ravvisati nel tenore della previsione del secondo periodo dell'art. 18, c. 7, L. 300/70 rispetto ai parametri costituzionali.

Emergerebbe, in primo luogo, un'arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo, dall'altro lato, in evidente contrasto con l'art. 3, c. 1, Cost. Ai fini della reintegrazione del lavoratore, invero, mentre nella richiamata prima fattispecie la reintegrazione è subordinata al ricorrere dell'insussistenza del fatto, nel licenziamento che trae origine da ragioni economiche sarebbe invece richiesta un'insussistenza manifesta, in assenza di qualsivoglia fondamento logico-giuridico e con inversione dell'onere della prova a carico del lavoratore, cui spetta la dimostrazione di tale circostanza.

In secondo luogo e sotto diverso angolo prospettico, il vulnus al principio di eguaglianza (art. 3, c. 1, Cost.) si coglierebbe anche nel raffronto con la disciplina dei licenziamenti collettivi, in quanto solo in quest'ultima fattispecie si potrebbe disporre la reintegrazione nell'ipotesi di violazione dei criteri di scelta, contrariamente a quanto avviene per i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo, in cui il requisito restrittivo in esame precluderebbe il ripristino del rapporto di lavoro e condurrebbe a una tutela meramente indennitaria.

In terzo luogo, il criterio individuato dal legislatore sarebbe, inoltre, intrinsecamente illogico ed irragionevole (e dunque anch'esso lesivo dell'art. 3, c. 1, Cost.), in quanto la disposizione censurata rimetterebbe, alla «scelta totalmente discrezionale» del giudice, la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun «criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti», in grado di definire il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto.

Ad avviso del rimettente, inoltre, l'irragionevolezza della disposizione censurata si rivelerebbe anche nell'inversione dell'onere della prova in essa sancita, in quanto il lavoratore, pur estraneo alle relative circostanze di fatto, dovrebbe dimostrarne la manifesta insussistenza. La previsione, dunque, viene nuovamente censurata in riferimento all'art. 3, c. 1, Cost., perché con «una regola illogica e irrazionale» imporrebbe al lavoratore la dimostrazione di «un fatto negativo […] e dai contorni indefiniti», che rientrerebbe «nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro».

In quinto luogo, il rimettente denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 1, 3, c. 1, 4 e 35 Cost., in quanto, nel subordinare la reintegrazione alla manifesta insussistenza del fatto (circostanza che nulla aggiungerebbe «al disvalore della fattispecie estintiva» e non varrebbe a tutelare la «libertà di iniziativa economica privata»), il legislatore avrebbe attuato «un illegittimo bilanciamento tra i valori in gioco delle due parti del rapporto» e avrebbe adottato una scelta penalizzante per il lavoratore.

Sotto diverso profilo, inoltre, la disciplina censurata, nell'imporre al lavoratore l'onere della prova di «un fatto dai contorni incerti», andrebbe a ledere il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall'art. 3, c. 2, Cost., posto che l'inversione dell'onere della prova a svantaggio del lavoratore ne limiterebbe la libertà e l'eguaglianza, in contraddizione con l'obiettivo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Da ultimo, infine, il rimettente prospetta il contrasto della disposizione censurata rispetto al disposto degli artt. 3, c. 1, e 24 Cost., in quanto la previsione dell'art. 18, c. 7, L. 300/70, nell'introdurre «un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi» e nell'onerare il lavoratore della prova di fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, pregiudicherebbe e renderebbe comunque «eccessivamente difficoltoso l'esercizio» del suo diritto di agire in giudizio. Il lavoratore non potrebbe prevedere «le proprie chance di successo» e, dunque, non potrebbe chiedere a ragion veduta di tutelare in sede giurisdizionale i propri diritti.

Le ragioni di opposizione: la tutela della libertà di iniziativa economica

Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, invece, la Legge Fornero perseguirebbe l'obiettivo di «introdurre un articolato sistema di rimedi, funzionale alla creazione di un mercato del lavoro “inclusivo e dinamico”» e, in questa prospettiva, si giustificherebbe la previsione del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico.

La ratio sottesa alla previsione normativa di un trattamento differenziato tra il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbe infatti ascrivibile ad un'intrinseca «diversità sostanziale delle due situazioni», essendo la prima determinata e connessa alla condotta del lavoratore, a differenza della seconda, rimessa alla sussistenza di criteri obiettivi ed alle scelte organizzative del datore di lavoro. In tale prospettiva, allora, la previsione del requisito della manifesta insussistenza del fatto fungerebbe da punto di bilanciamento legislativo tra il principio di libertà dell'iniziativa economica privata costituzionalmente garantito e l'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, in ipotesi palesemente carenti di ogni giustificazione in tal senso.

Né, a tal fine, potrebbe condividersi la tesi comparatistica invocata con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi, in quanto contraddistinta da «ulteriori ed evidenti esigenze di tutela della collettività, di natura tanto sociale quanto economica», che reclamano la più energica tutela reale.

Parimenti infondate risulterebbero, inoltre, le stigmatizzazioni articolate con riferimento al profilo della indeterminatezza del criterio della manifesta insussistenza del fatto, posto che tale requisito presenterebbe un chiaro significato sostanziale, ancorato all'emersione della chiara pretestuosità del licenziamento, nozione quest'ultima da ritenersi autonoma rispetto a quella del licenziamento discriminatorio o ritorsivo.

Ne deriva che risulterebbe necessario, incomprimibile e finanche «fisiologico» il margine di discrezionalità attribuito al giudice nell'esercizio del potere di valutazione delle circostanze del caso concreto, considerando anche come il lavoratore benefici in ogni caso di una «tutela indennitaria piena», funzionale a garantirgli «un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto a causa del licenziamento illegittimo».

Il differenziato sistema di rimedi previsti dalla disposizione in esame, dunque, promana dalla diversificata gradazione dei vizi legislativamente attuata, come punto di sintesi frutto di un prudente contemperamento degli interessi contrapposti.

I passaggi salienti della decisione della Corte

Il fulcro delle censure risiede nell'attribuzione al giudice di «insondabili e insindacabili poteri discrezionali», sprovvisti di ogni «riferimento concreto e specifico» e diversi dalla «discrezionalità che si muove all'interno di confini ragionevolmente delimitati dal legislatore, che è al contrario il valore aggiunto della giurisdizione».

In primo luogo, invero, il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è, anzitutto, indeterminato.

Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento, risultando affatto agevole nella prassi, il discrimine tra l'evidenza conclamata del vizio e l'insussistenza pura e semplice del fatto (come già statuito dalla stessa Corte: C.Cost. 1° aprile 2021 n. 59).

Si rivela, infatti, labile la definizione di un elemento di fattispecie che richiede un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti e in tal senso il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico.

La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l'accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.

Peraltro, nelle controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica immediata e palese dell'insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione. In tal senso, dunque, il criterio della manifesta insussistenza risulta irragionevole ed eccentrico nell'apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell'accertamento. Il presupposto in esame non ha, infatti, alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l'insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.

L'elemento distintivo dell'insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento, in quanto la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina.

Il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell'ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.).

L'attuazione di tali principi è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore (C.Cost. 1° aprile 2021 n. 59; C.Cost. 16 luglio 2020 n. 150; C.Cost. 8 novembre 2018 n. 194), chiamato ad apprestare un equilibrato sistema di tutele.

Questa Corte ha tuttavia ribadito che il legislatore, pur nell'ampio margine di apprezzamento di cui dispone, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (C.Cost. 1° aprile 2021 n. 59). La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, nelle quali la reintegrazione non costituisce «l'unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (C.Cost. 1° aprile 2021 n. 59; C.Cost. 7 febbraio 2000 n. 46).

Nel caso di specie, inoltre, non viene in rilievo nemmeno quella discrezionalità che si sostanzia nel ponderato apprezzamento «delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall'ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata» (come già statuito nella C.Cost. 1° aprile 2021 n. 59).

L'irragionevolezza del criterio enucleato dal legislatore si coglie anche da un'altra angolazione, posto che, nel far leva su un requisito indeterminato e per di più svincolato dal disvalore dell'illecito, la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi, con un aggravio irragionevole e sproporzionato che impegna le parti ed il giudice, oltre all'accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, anche nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza.

Un sistema così congegnato vanifica, dunque, l'obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell'impiego (art. 1, c. 1 lett. c), L. 92/2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo. L'irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede, quindi, anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti.

C. Cost. 19 maggio 2022 n. 125