22/04/2022 | Paolo Patrizio
La Cassazione interviene delineando i criteri per individuare la tutela concretamente applicabile al licenziamento illegittimo, sancendo come sia consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa, anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche (Cass. 11 aprile 2022 n. 11665).
Il caso di specie
La fattispecie in esame trae origine dal ricorso promosso da un dipendente con mansione di comandante delle guardie giurate, il quale si era rivolto al giudice del lavoro per far dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa, intimatogli a seguito di contestazione disciplinare per i seguenti tre addebiti:
- l'avere, in una conversazione via chat con una collega, criticato e denigrato i responsabili dell'impresa;
- non aver denunciato l'aggressione con lesioni subita da una guardia giurata durante il servizio;
- l'avere omesso per 5 mesi di segnalare alla Questura di Udine i turni di servizio del personale, come imposto da precise direttive.
Sia in primo che in secondo grado, i giudici del merito, accertata l'irrilevanza disciplinare della prima contestazione ed il "minimo rilievo" disciplinare delle altre due, provvedevano a dichiarare l'illegittimità del comminato licenziamento, divergendo, tuttavia, sulla tipologia di tutela concretamente applicabile per il caso in esame.
Ed invero, mentre il Tribunale, giudicando in sede di opposizione, aveva provveduto ad annullare il licenziamento per difetto di giusta causa, condannando la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a corrispondergli un'indennità risarcitoria (art. 18, c. 4, L. 300/70), la Corte d'appello, investita del reclamo da parte della datrice di lavoro, aveva invece dichiarato risolto il rapporto di lavoro, con mera condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria (art. 18, c. 5, L. 300/70), quantificata in venti mensilità della retribuzione mensile oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo.
In particolare, il Collegio distrettuale aveva ritenuto che quelle descritte dalla norma collettiva fossero "ipotesi formulate in modo assai generico ed indefinito" nelle quali non era possibile sussumere l'omessa denuncia di un fatto di servizio e l'omessa trasmissione di documenti all'Autorità locale di Polizia.
Conseguentemente, richiamata la giurisprudenza di legittimità che ha interpretato l'art. 18, c. 4, L. 300/70 in maniera rigorosa (sul presupposto del carattere residuale della tutela reintegratoria nel sistema delle tutele disegnato dalle modifiche apportate dalla L. 92/2012, così come la necessità che il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore e che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa), ha escluso di poter reintegrare il lavoratore ed ha applicato la tutela indennitaria prevista (art. 18, c. 5, L. 300/70).
Il caso approda, quindi, al vaglio della Suprema Corte, alla quale viene chiesto di chiarire i criteri per individuare la tutela concretamente applicabile al licenziamento sulla base dell'art. 18 L. 300/70 come novellato dalla L. 92/2012.
La soluzione in sintesi
Dopo aver riportato le diverse tipologie di tutela applicabile ai sensi dell'art. 18 L. 300/70, alla luce delle modifiche apportate con la c.d. Legge Fornero, l'Organo della Nomofilachia si concentra sulla fattispecie dell'abuso consapevole del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, come delineatosi nella stessa giurisprudenza della Suprema Corte.
Punto di partenza, nell'analisi de qua, è l'accento da tempo posto sulla chiara ratio della novella dell'art. 18 L. 300/70, in cui la tutela reintegratoria presupporrebbe l'abuso consapevole del potere disciplinare, implicante una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute, dalle parti sociali, inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore.
In tal senso, l'apertura all'analogia o ad un'interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto.
Da qui l'esigenza di particolare “severità” dell'interpretazione attuativa del disposto in menzione, più volte ricordata dalla Suprema Corte, non potendosi, di norma, ampliare il catalogo delle condotte sanzionabili con misure conservative, poiché, in tal modo, si finirebbe per ridurre la portata stessa della norma che costituisce la regola (ovvero la preferenza della tutela indennitaria), rispetto all'eccezione rappresentata dall'accesso alla tutela reintegratoria.
Sulla base di tale ricostruzione, il licenziamento illegittimo è, dunque, meritevole della tutela reintegratoria accanto a quella indennitaria solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, con l'eccezione rappresentata dalla possibilità di procedere ad un'interpretazione estensiva delle clausole contrattuali soltanto ove esse appaiano inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, traducendosi, di fatto, in un contenuto deviante e/o carente rispetto all'intenzione delle stesse.
Ma, a ben vedere, il procedimento di valutazione giudiziale in merito alla legittimità del licenziamento ha essenzialmente struttura bifasica, in quanto al giudice è demandato di interpretare la norma collettiva non solo per stabilire se si possa ritenere sussistente o meno una giusta causa o un giustificato motivo di recesso, ma anche per individuare la tutela in concreto applicabile.
Ecco allora che, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa risultasse delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale (graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto) rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola, utilizzando standard conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità.
È, infatti, frequente che le condotte disciplinarmente rilevanti previste dai contratti collettivi non siano definite in maniera rigida e secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma abbiano in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l'esercizio del potere disciplinare.
In tal senso, dunque, la tecnica dell'individuazione di fattispecie generali poi specificate in via esemplificativa attraverso l'individuazione di casi esplicativi o, ancora, la catalogazione di una serie di condotte tipizzate accompagnata da una previsione più generale e di chiusura, non precluderebbe affatto al giudice di svolgere quell'attività di interpretazione integrativa del precetto normativo sempre al fine di individuare quale sia la tutela in concreto applicabile.
L'interpretazione della norma collettiva formulata attraverso una clausola generale o elastica non può prescindere evidentemente da un giudizio che afferisce alla ricostruzione della portata precettiva di una norma.
L'attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Non si tratta di una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta.
In definitiva, ed in via esemplificativa, ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva.
In tale prospettiva, dunque, la tipizzazione operata dalla disciplina collettiva non può essere di per sé decisiva e utilizzabile come elemento dirimente per tracciare i contorni ed i limiti delle diverse tutele da applicare qualora si accerti l'illegittimità del recesso. Nel caso in cui nel contratto collettivo siano presenti formule generali, norme elastiche, norme di chiusura, la mancata tipizzazione di alcune condotte tra quelle suscettibili di essere punite con una sanzione conservativa, infatti, non può essere di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle da quelle meritevoli di una sanzione più lieve rispetto al licenziamento.
Né tale interpretazione dell'art. 18, c. 4 e 5, L. 300/70 si porrebbe in contrasto con l'esigenza di porre il datore di lavoro nella condizione di avere una chiara e preventiva rappresentazione dell'illegittimità del provvedimento espulsivo che si accinge ad irrogare, così prefigurandosi la sanzione applicabile, costituendo, piuttosto, un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti.
Ne consegue, che il discrimine tra la tutela reintegratoria e indennitaria collocato nella tipizzazione degli illeciti ad opera dei contratti collettivi o dei codici disciplinari non può escludere la possibilità di interpretazione ed applicazione giudiziale delle clausole generali o elastiche, finendo per comprimere lo spazio di una interpretazione estensiva che andrebbe al di là della volontà dello stesso legislatore del 2012.
Ed invero, nel novellato art. 18 L. 300/70, l'utilizzazione di espressioni quali "fatto" che rientra tra le "condotte" punibili con una sanzione conservativa ed il rinvio alle "previsioni" dei contratti collettivi e dei codici disciplinari autorizza a ritenere che l'operazione interpretativa sia del tutto compatibile con il tenore testuale della norma. Non si evince, infatti, alcun ragionevole richiamo ad una tipizzazione specifica e rigida delle singole fattispecie sicché laddove la disposizione collettiva contenga, accanto a fattispecie tipiche, clausole generali o elastiche di apertura o di chiusura è il giudice che ha il compito di riempirle di contenuto.
Per la Suprema Corte di Cassazione, pertanto, si deve affermare che "in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 18, commi 4 e 5, come novellata dalla L. n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.