13/04/2022 | Paolo Patrizio
Il rifiuto dell'assunzione della donna a causa dello stato di gravidanza rappresenta condotta discriminatoria fondata sul sesso, che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro. Con un intervento dall'importante valore orientativo, il Tribunale capitolino sancisce la piena operatività della tutela antidiscriminatoria sin dalla fase di selezione del personale, così determinando l'estensione della latitudine operativa di siffatto principio di salvaguardia anche per l‘ambito dell'accesso al lavoro, non diversamente da quanto accade per la successiva protezione prevista in sede di svolgimento e cessazione del rapporto.
Il caso di specie
Con ricorso ex art. 38 D.Lgs. 198/2006, due assistenti di volo si rivolgevano all'Autorità Giudiziaria per sentire accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta attuata dalla Compagnia aerea convenuta, consistita nella mancata selezione e successiva assunzione delle ricorrenti a causa del loro stato di gravidanza.
In particolare, a fondamento dell'avanzata pretesa giudiziale le deducenti evidenziavano come tutte le lavoratrici impiegate presso la base di Fiumicino che si trovano in gravidanza o in astensione obbligatoria per maternità non fossero state neppure chiamate per la selezione, essendo state loro preferite altre lavoratrici con minore anzianità ed esperienza nel ruolo lavorativo, in perfetta attuazione di una chiara condotta discriminatoria da parte della Compagnia convenuta.
Si costituiva in giudizio la resistente per contrastare l'assunto attoreo sulla base di tre argomentazioni principali:
a) l'inammissibilità dell'azione per permanenza del piano di reclutamento del personale ancora in corso (con conseguente mancata definizione dell'attualità della lesione, potendo il personale e le stesse deducenti essere ancora assunte);
b) la non consapevolezza dello stato di gravidanza delle ricorrenti e la determinazione della causa ostativa all'assunzione esclusivamente per altre ragioni (quali la mancanza, in capo alle lavoratrici, di adeguata certificazione per lo svolgimento dell'attività lavorativa);
c) l'omesso assolvimento dell'onere probatorio incombente su parte ricorrente (che non avrebbe fornito elementi di fatto, desumibili anche da dati statistici, che costituiscano indizi precisi e concordanti, anche se non gravi, dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori da parte della società resistente).
La soluzione in sintesi
Dopo aver respinto in prima battuta la tesi dell'inammissibilità della domanda attorea per permanenza della procedura reclutativa (grazie all'emersione processuale del completamento della quasi totalità del piano assunzionale ad opera della Compagnia, in uno all'assenza di specifiche obbligazioni di soglia quantitativa di certa assunzione da parte della resistente), l'estensore della sentenza in commento ha rilevato la fondatezza della domanda attorea, avendo le ricorrenti fornito elementi precisi e concordanti sull'esistenza di una condotta discriminatoria in loro danno per la loro condizione di gravidanza, in uno allo speculare mancato assolvimento, da parte della società resistente, dell'onere probatorio sulla stessa incombente, in merito all'inesistenza della paventata discriminazione.
Di seguito, l'indicazione della scomposizione decisionale per tematiche di riferimento:
a) I riferimenti normativi e giurisprudenziali sulla discriminazione in fase preassuntiva
Il punto di partenza dell'adottata pronuncia solutiva è da ricondurre al tenore letterale dell'art. 27 D.Lgs. 198/2006, il quale al primo comma chiarisce come: “È vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale…”, mentre al secondo comma, lett. a), dispone che: “La discriminazione di cui al comma 1 è vietata anche se attuata: a) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive …” .
A tale previsione normativa fa da palinsesto speculare la giurisprudenza comunitaria e nostrana.
La Corte di Giustizia dell'Unione europea, invero, ha più volte chiarito che l'ambito di applicazione dei divieti di discriminazione investe anche la fase preassuntiva, tenuto conto della rilevanza che l'accesso al lavoro riveste nella vita personale, che lo rende in linea di principio analogo, sotto un profilo assiologico, a quello della perdita del lavoro conseguente al licenziamento (cfr. CGUE 14 marzo 2017 Bagnaoui C-188/15).
La Suprema Corte di Cassazione, parimenti, ha evidenziato, da ultimo con la sentenza 26 febbraio 2021 n. 5476, come: “Nelle decisioni CGUE, C-177/88, Dekker del 14 novembre 1989 e CGUE, C-179/88, Hoejesteret dell'8 novembre 1990; la Corte di Giustizia ha stabilito che, poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro”.
b) L'irrilevanza dell'intento discriminatorio ed il riparto dell'onere probatorio
In seconda battuta viene in rilievo il combinato disposto della mera rilevanza del dato oggettivo della condotta discriminatoria, in uno alla corretta suddivisione del carico probatorio in materia.
Ed invero, in relazione al primo profilo, la valutazione della discriminatorietà o meno della condotta contestata va ancorata al mero dato oggettivo degli effetti prodotti, con esclusione di qualsiasi rilevanza dell'intento soggettivo.
Tale assunto lo si ricava candidamente dall'analisi del disposto dell'art. 40 D.Lgs. 198/2006 che, definendo in contenuto dell'onere probatorio, lo riferisce esclusivamente all'esistenza di “atti, patti o comportamenti discriminatori”, in questo modo ancorando la definizione solo ad elementi obiettivi, senza che l'onere della prova si possa intendere esteso all'elemento soggettivo di chi pone in essere questi elementi.
In relazione al secondo profilo, invece, vengono opportunamente richiamate le disposizioni normative e giurisprudenziali che governano il riparto dell'onere probatorio in materia.
L'art. 28, c. 4, D.Lgs. 150/2011 stabilisce, infatti, che: “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.
L'art. 40 D.Lgs. 198/2006 prevede, in maniera analoga, un regime di distribuzione dell'onere probatorio “attenuato” a favore della parte che denuncia la discriminazione, stabilendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione”.
Del medesimo tenore anche la normativa comunitaria, in quanto ai sensi dell'art. 19 Dir. CE 2006/54 “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta”.
Chiude il cerchio la Suprema Corte, la quale ha affermato a più riprese come: “In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l'art. 40 D.Lgs. 198/2006 - nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall'art. 19 Dir. CE 2006/54 (come interpretato da C.Giust. UE 21 luglio 2011 n. C-104/10), l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” (Cass. 5 giugno 2013 n. 14206).
c) La tutela accordata
L'ultimo passaggio attiene alla tutela accordata dal Tribunale capitolino in considerazione dell'accertamento della condotta discriminatoria.
Nel respingere la richiesta di assunzione avanzata dalle ricorrenti sul presupposto della esorbitanza, dal potere giudiziale e per un giudizio quale quello de quo, della possibilità di costituzione coattiva di un rapporto di lavoro (per potenziale conflitto con le prerogative riconosciute al datore di lavoro in base ai principi espressi dall'art. 41 Cost.), il Giudice riconosce alle deducenti il diritto ad ottenere la tutela risarcitoria in termini di perdita di chance (quantificabile nell'importo della retribuzione mensile per il periodo di 15 mensilità, tenuto conto del periodo di astensione dal lavoro antecedente il parto ed i sette mesi successivi dalla nascita del figlio).
In questo modo, conclude l'estensore, la condanna al pagamento della somma a titolo risarcitorio vale a ristorare le ricorrenti dal danno subito per la perdita di chance ma esprime anche una valenza dissuasiva perché elide il vantaggio che la società resistente ha inteso assicurarsi evitando l'assunzione di assistenti di volo in gravidanza, per le quali la presenza sul luogo di lavoro sarebbe stata sospesa per la durata del tempo a cui la condanna viene commisurata.