26/04/2021 | Vincenzo Fabrizio Giglio
Il divieto di licenziamento durante il periodo emergenziale non comprende la figura del dirigente, sia per espressa esclusione letterale, sia per coerenza con il sistema della legislazione emergenziale che sorregge l'eccezionalità della misura.
Il caso
Un dirigente era assunto con mansioni di Chief operating officer e applicazione del CCNL Dirigenti industria. A seguito della crisi economica dovuta alla pandemia da COVID-19, la società ha tuttavia deciso di sopprimere la sua posizione lavorativa, ridistribuendone le mansioni, e di recedere conseguentemente dal contratto di lavoro. Ciò accadeva con lettera del 6 maggio 2020, dunque, nel pieno dell'emergenza sanitaria e delle connesse norme emergenziali.
In particolare, era vigente il Decreto "Cura Italia" il quale, tra l'altro, cosi disponeva: "[…] l'avvio delle procedure di cui agli artt. 4, 5 e 24 L. 223/91, è precluso per cinque mesi […]. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 L. 604/66. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all'art. 7 L. 604/66 (art. 46 DL 18/2020 conv. in L. 27/2020; "Cura Italia Ter")".
Si trattava della prima edizione del c.d. "blocco dei licenziamenti" che ha poi accompagnato l'Italia per i mesi successivi.
Il dirigente ha pertanto impugnato il licenziamento ritenendolo, tra l'altro, in contrasto con tali disposizioni. Il Tribunale, nel confermare la fondatezza del licenziamento, ha passato in rassegna alcuni dei principali temi giuridici della materia, avviando l'esame dalla liceità del recesso in relazione al blocco dei licenziamenti.
La decisione del Tribunale di Roma
In primo luogo, il Tribunale ha affermato che il licenziamento dei dirigenti si colloca fuori dall'ambito di applicazione del divieto emergenziale. Tale arresto è stato raggiunto all'esito di un esame letterale e sistematico della disposizione. Come sopra ricordato, infatti, la norma che istituisce il divieto di licenziamento individuale (come poi, sul punto, esattamente anche le successive) ne ha definito il perimetro intorno al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 L. 604/66; ed è noto che la stessa legge limita il proprio ambito di applicazione ai prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di quadro, impiegato e operaio ai sensi dell'art. 2095 c.c. (art. 10 L. 604/66), laddove ai dirigenti è estesa la sola applicazione della forma scritta essenziale del licenziamento (art. 2 c. 4, L. 604/66; Cass 2 ottobre 2018 n. 23894 e Cass. 26 ottobre 2018 n. 27199). La motivazione scorre rapida sul punto ma traspare il richiamo del Tribunale alla necessità di una interpretazione della norma che si attenga al dato letterale della stessa e alla sua natura eccezionale (artt. 12 e 14 Prel.).
In secondo luogo, il Tribunale osserva che l'esclusione della figura di dirigente dal blocco dei licenziamenti risulta coerente con lo spirito che sorregge l'eccezionale ed emergenziale previsione del blocco dei licenziamenti durante la pandemia e che ha trovato il proprio equilibrio nella pressoché generalizzata possibilità per le aziende di far ricorso agli ammortizzatori sociali in corso di rapporto. È proprio il binomio divieto di licenziamento/costo del lavoro a carico della collettività, osserva il Giudice, a sorreggere il sistema.
Tale circostanza, prosegue, rappresenta un'ulteriore conferma della esclusione dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti e – in altri termini – della loro perdurante licenziabilità: essendo costoro esclusi dall'accesso agli ammortizzatori sociali in costanza del rapporto, vietarne il licenziamento significa imporne il costo del lavoro al datore di lavoro pur in presenza delle condizioni che giustificano recesso. E ciò rappresenterebbe una violazione della libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost.
Osservazioni
Sciolto il nodo principale, il Tribunale ha poi esaminato il licenziamento e le allegazioni del dirigente alla luce degli orientamenti consolidati.
Il licenziamento in questione era stato motivato con la soppressione della posizione determinata dall'obiettivo di contenere i costi.
L'istruttoria ha confermato che le mansioni già svolte dal dirigente erano in effetti state (non soppresse ma) redistribuite ad altre figure aziendali, senza che nessuno avesse preso il suo posto dopo la cessazione del rapporto; mentre, contestualmente, la società attivava la cassa integrazione COVID-19 per tutto il personale non dirigente e riduceva in misura significativa le consulenze esterne.
Alla luce di ciò, il licenziamento doveva quindi ritenersi valido e giustificato.
Non potevano neppure essere indagate le eccezioni basate sul repêchage poiché, rammenta il Tribunale, esso non è applicabile al rapporto di lavoro dirigenziale, caratterizzato invece dalla libera recedibilità (Cass. 5 aprile 2019 n. 9655; Cass. 11 febbraio 2013 n. 3175). Mentre la giustificatezza del licenziamento del dirigente va riconosciuta laddove sia riscontrata un'esigenza economicamente apprezzabile, l'effettiva soppressione della posizione e non emerga la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione (Cass. 20 giugno 2016 n. 12668).