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Tutele crescenti: al Giudice la decisione sulla reintegra


23/02/2024 | Luca Furfaro



La Corte Costituzionale torna a trattare le tutele crescenti create dal Jobs Act: con sentenza 22 febbraio 2024 n. 22 prevede che la nullità del licenziamento non deve essere espressamente prevista dalla legge, rimandando così al Giudice la decisione sulla possibilità di reintegra.

Fonte: Quotidianopiù

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, c. 1, D.Lgs. 23/2015. Tale disposizione è stata ritenuta illegittima nella parte in cui, nel riconoscere normativamente la nullità e di conseguenza la tutela reintegratoria, nei casi di licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l'ha limitata alle nullità sancite “espressamente”.

La legge delega sulle tutele crescenti

La Corte Costituzionale poggia i propri ragionamenti sul principio di limitazione della delegazione legislativa, la cui possibilità è ben delimitata a un esercizio di delega precisa al Governo per un tempo limitato e sempre che ricorrano le due condizioni richiamate dalla Corte (art. 76 Cost.):

1) devono essere determinati i “princìpi e criteri direttivi”;

2) devono essere definiti gli “oggetti”.

Sul tema comunque la sentenza richiama la possibile flessibilità, già citata dalla giurisprudenza, che consente di consegnare gli obiettivi e le linee di fondo delle scelte del Legislatore delegante. In questa prima casistica, secondo la Corte, sono molto ampi il potere e l'“attività di ‘riempimento' normativo” conferiti al Legislatore delegato.

Diversamente, la Legge delega potrebbe contenere principi e criteri direttivi molto puntuali e specifici, riducendo il potere del Legislatore delegato quasi a un'opera di sostanziale trasposizione.

L'incostituzionalità

Da questo ragionamento parte l'interpretazione della Legge delega sulle tutele crescenti che non offre indicazioni in merito alla distinzione tra nullità “espressamente” previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l'espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione.

I Giudici quindi ritengono che il diritto alla reintegrazione è contemplato per i licenziamenti nulli senza una loro “catalogazione” e che tale eventuale obbiettivo avrebbe richiesto, rispetto alla previgente disciplina, una previsione espressa. Tale concetto, portato avanti dalla Corte, osserva che nel caso in cui il Legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione tra le nullità l'avrebbe prevista come, invece, fatto esclusivamente in merito al “licenziamento disciplinare ingiustificato” per il licenziamento disciplinare.

Tale eccesso estensivo in termini di riempimento normativo viene quindi ravvisato nel c. 1 dell'art. 2, D.Lgs. 23/2015, che recita: “il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.”.

Il tema è quindi focalizzato sul riferimento all'“espressamente previsti dalla legge” che viene, vista la dichiarata incostituzionalità, rivisto con maggiore potere discrezionale al Giudice, prevedendo che il regime del licenziamento nullo è il medesimo, sia che sia espressa la motivazione di nullità, sia che la stessa non sia prevista espressamente ma si ravvisi il carattere imperativo della prescrizione violata e salvo che la legge disponga diversamente. La sentenza ribadisce che è necessario che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

La necessità di revisione delle tutele

I Giudici della Corte Costituzionale consigliano al Legislatore di ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, come quella connessa ai licenziamenti e loro tutele, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari. Sul punto viene richiamata anche la sentenza 150/2020 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità anche dell'art. 4 D.Lgs. 23/2015, per violazione dei principi costituzionali di eguaglianza, ragionevolezza e tutela del lavoro, limitatamente alla parte in cui, per la determinazione dell'indennità minima da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, fa esclusivo riferimento all'anzianità di servizio.

Mentre, solo un mese fa, una diversa decisione (sentenza 7/2024) aveva dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, c. 1, e 10, D.Lgs. 23/2015 che prevedevano una tutela indennitaria.

Si prospetta quindi, la necessità di ritornare sul tema delle tutele per i licenziamenti alla luce di una sostanziale neutralizzazione di quella che voleva essere, almeno nelle intenzioni, una forma di misurazione certa del rischio in caso di licenziamento.