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Rifiuto del part-time e licenziamento per GMO: per la Cassazione è possibile


06/06/2023 | Matteo Motroni

La Cassazione, con sentenza n. 12244 del 9 maggio 2023, ha ammesso la possibilità di ricorrere al licenziamento per GMO nei riguardi di un dipendente che, nel contesto di una situazione di esubero di personale, abbia rifiutato la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time.

Part-time per risolvere situazioni di esubero: i precedenti

Capita spesso, specialmente nelle piccole realtà, che i datori di lavoro si trovino ad affrontare situazione di esubero di personale o cambiamenti organizzativi che siano fronteggiabili anche mediante la trasformazione dei rapporti di lavoro da full-time a part-time.

Altrettanto spesso, però, si pone il problema di come gestire eventuali rifiuti opposti dai dipendenti: infatti, a fronte di quanto previsto dall'art. 8, c. 1, L. 604/66 (secondo cui “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto a tempo pieno in un rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”), vi è il rischio che la decisione datoriale di recedere dal rapporto possa essere qualificata come ritorsiva, in quanto diretta a sanzionare il legittimo esercizio di un diritto da parte del dipendente.

Non sono mancati i casi in cui la giurisprudenza di merito ha sanzionato con la nullità operazioni di questo genere, qualificando la proposta di passaggio a part-time addirittura come il tentativo di esercitare una “coazione” sui lavoratori allo scopo di imporre l'accettazione di condizioni di lavoro in contrasto con la legge (Trib. Bologna 19 novembre 2012).

La stessa Corte di Cassazione, pur avendo da diversi anni ammesso che “in presenza di determinate esigenze aziendali di carattere produttivo ed organizzativo la impossibilità di trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale possa configurare il giustificato motivo obiettivo di recesso” (Cass. 9 luglio 2001 n. 9310), ha dimostrato una certa prudenza verso l'utilizzo del part-time come strumento di risoluzione delle crisi occupazionali.

Ad esempio, è stato affermato che il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro da tempo indeterminato a tempo parziale non costituirebbe causa di giustificazione del licenziamento, se motivato dall'apposizione unilaterale di clausole elastiche da parte del datore di lavoro (Cass. 6 luglio 2005 n. 14215).

In altri casi è stata esclusa la diretta operatività di accordi sindacali (stipulati nell'ambito di procedure ai sensi della L. 223/91) che avevano consentito di ridurre i lavoratori da collocare in mobilità attraverso la suddetta trasformazione dei rapporti di lavoro, con conseguente illegittimità dei licenziamenti intimati a carico dei dipendenti che non avevano accettato la trasformazione (Cass. 17 luglio 2006 n. 16169; Cass. 14 luglio 2014 n. 16089).

Altrettanta cautela è stata serbata dalla giurisprudenza nelle ipotesi opposte, in cui a fronte del mutamento del quadro organizzativo o produttivo si era posta l'esigenza di trasformare il contratto di lavoro da part-time a full-time; secondo la Corte di Cassazione, infatti, “quando le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa ne impongano, invece, il potenziamento, non sussiste il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte di un rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno” (Cass. 15 novembre 2012 n. 20016).

La soluzione adottata dalla Cassazione: bilanciamento di interessi

La sentenza in commento si distingue per un approccio molto più elastico rispetto alla regola della consensualità cui è improntata la disciplina di legge sul part-time.

Secondo la Corte di Cassazione, la previsione dell'art. 8, c. 1, L. 604/66 “non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell'onere della prova posto a carico di parte datoriale”.

A fronte di ipotesi di questo genere (in cui il licenziamento è intimato non come mera conseguenza del rifiuto ma a causa dell'impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time), si assiste ad un ampliamento dell'onere della prova gravante sul datore di lavoro, che dovrà comprendere sia le ragioni (economiche, ma potrebbero essere anche di altra natura: si pensi ad esempio ai casi di inidoneità fisica sopravvenuta) da cui deriva l'impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno, sia il tentativo di ricollocazione a part-time (e il conseguente rifiuto del lavoratore), sia infine la dimostrazione del nesso causale tra esigenze di riduzione dell'orario e licenziamento.

La sussistenza di tutti questi elementi rende superflua ogni indagine in merito alla eventuale natura ritorsiva del licenziamento: affinché possa configurarsi la nullità del licenziamento, infatti, è necessario che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante ed esclusiva; è cioè necessario che il motivo illecito costituisca l'unica ragione alla base del recesso; ma tale evenienza è necessariamente da escludersi ove il datore di lavoro abbia assolto all'onere probatorio “ampliato” gravante a suo carico, dimostrando o anche solo accreditando l'esistenza di un motivo lecito organizzativo alternativo.

La soluzione in esame appare logica e coerente anche con la normativa comunitaria.

Ricordiamo infatti che, a “monte” dell'art. 8, c. 1, L. 604/66, vi è la clausola 5, punto 2, dell'accordo quadro 6 giugno 1997 allegato alla Dir. CE 97/81, la quale prevede che il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno a uno a tempo parziale, o viceversa, non deve, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento.

Come osservato dalla Corte costituzionale, lo scopo delle previsioni in esame non è quello di attribuire al lavoratore un potere di veto assoluto bensì di dar luogo ad un ponderato bilanciamento tra l'interesse del lavoratore a non subire variazioni unilaterali dell'estensione oraria del proprio rapporto di lavoro e le esigenze organizzative, tecniche o produttive dell'impresa che, in taluni casi, ben possono imporre modifiche della posizione lavorativa ovvero del regime temporale della prestazione.

Il licenziamento del lavoratore che si opponga alla trasformazione del rapporto, allora, deve ritenersi vietato “solo quando il rifiuto della trasformazione da parte del lavoratore costituisce la sua ragione esclusiva e mancano motivi ulteriori rispetto ai quali l'elemento della prestazione a tempo parziale venga in rilievo solo di riflesso. In presenza, infatti, di effettive esigenze organizzative, tecniche o produttive che impongano la trasformazione del rapporto, l'indisponibilità del lavoratore al mutamento risulta ingiustificata e può dare anche luogo, in casi estremi, al suo licenziamento” (C.Cost. 19 luglio 2013 n. 224).