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Il dipendente riammesso in servizio non può essere trasferito


26/05/2023 | Elena Cannone



Il lavoratore, riammesso in servizio a seguito della dichiarazione di nullità del trasferimento del ramo d'azienda cui era addetto, non può essere trasferito a meno che il mutamento di sede sia giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive. A chiarirlo è la Cassazione con l'ordinanza n. 13655 del 18 maggio 2023.

Fonte: Quotidianopiù

Un lavoratore ricorreva in giudizio affinché venisse dichiarato nullo il trasferimento da Napoli a Bologna disposto dalla banca sua datrice di lavoro, in ottemperanza all'ordine di reintegra nel posto di lavoro conseguente alla dichiarazione di nullità del trasferimento del ramo d'azienda cui era addetto.

La Corte d'appello territorialmente competente, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso del lavoratore, condannando la banca a riassegnarlo a mansioni equivalenti presso la filiale di Napoli.

Nello specifico, la Corte distrettuale:

  • riteneva illegittima la sua assegnazione a Bologna, pur tenendo conto del mutato quadro organizzativo aziendale, essendo il mutamento di sede soggetto alla disciplina ex art. 2103 c.c.;
  • giudicava le motivazioni poste alla base del trasferimento non idonee a giustificarlo, tenuto conto delle svariate mansioni descritte nell'area di appartenenza del lavoratore e delle numerose filiali presenti a Napoli ed in Campania;
  • evidenziava che, in presenza di un ordine giudiziale di reintegra, il lavoratore doveva, almeno inizialmente, essere riassegnato nel medesimo luogo della precedente attività lavorativa.

La banca soccombente ricorreva così in cassazione, affidandosi a 2 motivi. In particolare, la banca con il primo motivo lamentava che i giudici di merito avevano “pretermesso il diritto potestativo ad aderire alla transazione tra il lavoratore ed il cessionario del ramo d'azienda” e con il secondo motivo contestava la dichiarata nullità del contratto di cessione del ramo d'azienda nonché evidenziava l'impossibilità di ottemperare all'ordine di reintegra tenuto conto del tempo trascorso e della mutata organizzazione aziendale.

Il lavoratore resisteva con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, evidenziato che il lavoratore - pur avendo successivamente alla proposizione della domanda conciliato la lite con il cessionario, accettando la risoluzione del rapporto di lavoro e rinunziando a qualsiasi domanda/azione in relazione ad esso - poteva “coltivare” l'originaria domanda di nullità della cessione del ramo d'azienda nei confronti della cedente. Ciò in quanto doveva darsi conto della clausola contenuta nell'accordo transattivo con cui il lavoratore si riservava di proseguire il giudizio contro la stessa non senza rilevare che il giudicato e la transazione avevano natura diversa e, pertanto, non erano sovrapponibili.

Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, non vi sono motivi per rivedere la pronuncia con cui sono state affermate:

  • l'inoperatività verso il cedente della transazione intervenuta tra il lavoratore e il cessionario;
  • l'insussistenza di incompatibilità tra la transazione medesima e la dichiarata illegittimità del trasferimento del ramo d'azienda.

La Corte di Cassazione ha poi osservato che per “ramo d'azienda” ai sensi dell'art. 2112 c.c. deve intendersi “ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, presupponendo ciò comunque una preesistente attività produttiva funzionalmente autonoma (…) e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo”. Questo – continua la Corte di Cassazione – poiché è “preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obbiettiva funzionalità” (cfr. Cass. n. 8757/2014, 21711/2012, 21481/2009 e 131717/2009). Altrimenti vi sarebbe un contrasto con le direttive comunitarie 1998/50 e 2001/23 che richiedono già prima del trasferimento “un'entità economica che conservi la propria identità” e con gli artt. 4 e 36 Cost. che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l'assenza di riferimenti oggettivi.

La Corte di Cassazione ha, infine, affermato che l'ottemperanza da parte del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente. In altri termini, il dipendente deve essere reinserito nel luogo precedente e nelle mansioni originarie a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il suo trasferimento da una unità produttiva ad un'altra giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Resta fermo che il datore di lavoro, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, è tenuto ad allegare e provare in giudizio le ragioni che lo hanno determinato, non potendosi limitare a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte (cfr. Cass. 23595/2018 e 19095/2013).

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso proposto dalla banca, condannandola alla rifusione delle spese legali.