24/05/2023 | Elena Cannone
La normativa whistleblowing salvaguardia il dipendente segnalante dalle sanzioni disciplinari che potrebbero conseguire a suo carico o da reazioni ritorsive, ma non istituisce un'esimente per gli autonomi illeciti che egli abbia commesso, da solo o in concorso con altri. A stabilirlo è la Cassazione, con l'ordinanza n. 9148 del 31 marzo 2023.
Fonte: Quotidianopiù
Una struttura sanitaria pubblica avviava un procedimento disciplinare nei confronti di una infermiera per aver svolto attività non autorizzata presso un ente privato, per circa 8 anni e con introiti pari a circa € 28.000. Il procedimento de quo si concludeva con la sospensione della dipendente dal lavoro per 4 mesi.
Avverso la sanzione comminata, la lavoratrice ricorreva in giudizio invocando le tutele ai sensi dell'art. 54 bis D.Lgs. 165/2001 recante la disciplina del c.d. whistleblowing, poiché aveva denunciato il medesimo comportamento tenuto da altri suoi colleghi.
La lavoratrice, sia in primo che in secondo grado, si vedeva rigettare l'impugnazione proposta. Nello specifico, i giudici di merito osservavano che la norma invocata non poteva essere considerata uno scudo generalizzato rispetto agli illeciti commessi.
La lavoratrice soccombente decideva così di presentare ricorso in cassazione.
Normativa di riferimento
L'art. 54 bis D.Lgs. 165/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico l'istituto del c.d. whistleblowing. Detto articolo tutela, nello specifico, il dipendente pubblico che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnala condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro. Il dipendente segnalante non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa - avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro - determinata dalla segnalazione.
Sussistono poi delle ulteriori garanzie che presidiano l'anonimato del segnalante. Per quanto di precipuo interesse, nell'ambito del procedimento disciplinare la sua identità non può essere rivelata, ove la contestazione dell'addebito sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se ad essa conseguenti. E, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza della sua identità sia indispensabile per la difesa dell'incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della propria identità.
Grava poi sull'amministrazione pubblica dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati sono nulli ed il segnalante, eventualmente licenziato a motivo della segnalazione, deve essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. 23/2015.
Le tutele di cui all'articolo in esame non sono garantite nei casi in cui venga accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione investita della causa ha osservato che la fattispecie delineata dall'art. 54 bis D.Lgs. 165/2001 esclude dal proprio novero le condotte calunniose o diffamatorie (poi, secondo il testo novellato dalla L. 179/2017, in presenza almeno di colpa grave) per ricomprendervi le segnalazioni di illeciti altrui effettuate dal dipendente ai propri superiori. Ciò, con l'effetto di impedire che il lavoratore medesimo, in ragione di tali segnalazioni, possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure direttamente o indirettamente discriminatorie aventi effetti sulle sue condizioni di lavoro per motivi collegati in modo diretto o indiretto alla denunzia.
Ne consegue che la comminazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti propri resta fuori dall'ambito di tutele della norma che non esime da responsabilità chi commette un illecito disciplinare per il solo fatto di denunciare la commissione dello stesso o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti.
Tale conclusione, secondo la Corte di Cassazione, è confermata anche dalle fonti internazionali che sono alla base dell'istituto del whistleblowing, tra cui la Convezione dell'Organizzazione Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata in Italia con la L. 116/2009, nonché la Dir. UE 2019/1937. Dette fonti impongono, infatti, agli Stati di adottare misure appropriate per proteggere chi segnala illeciti ma non di costruire esimenti rispetto a quegli illeciti che il segnalante, da solo o in concorso, abbia commesso.
Ciò significa che nulla vieta all'ordinamento di riconoscere eventuali attenuanti o, laddove possibile, di valorizzare il “pentimento” sotto il profilo della valutazione di proporzionalità ma l'art. 54 bis D.Lgs. 165/2001 non riconosce, né lo Stato è tenuto a riconoscere, un'esimente rispetto a tali autonomi illeciti.
In questo contesto, la Corte di Cassazione ha così elaborato il seguente principio di diritto: “la normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguardia il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell'apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo”.
In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice e la sua condanna al pagamento delle spese processuali.