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Nulli i contratti a termine con causali generiche o incomprensibili


06/02/2023 | Paolo Patrizio

La Cassazione, con l'ordinanza n. 2894 del 31 gennaio 2023, precisa che, se manca l 'indicazione specifica e comprensibile della causale del termine, il contratto a tempo determinato è nullo il contratto a tempo determinato e la sua conversione in rapporto a tempo indeterminato.

Fonte: Quotidianopiù

La Cassazione, con l'ordinanza n. 2894/2023 pubblicata il 31 gennaio 2023, interviene nuovamente in materia di nullità delle clausole di apposizione del termine al rapporto di lavoro a tempo determinato.

Il caso trae origine dal ricorso promosso dall'azienda datrice di lavoro avverso la decisione dei Giudici di secondo grado, i quali, in riforma della sentenza di prime cure, avevano dichiarato la nullità delle clausole di apposizione del termine contenute nei contratti stipulati, tra lavoratore ed azienda, negli anni 2005 e 2006, procedendo alla conseguente conversione a tempo indeterminato del primo contratto, riammissione in servizio del lavoratore e condanna della società al pagamento, in favore di quest'ultimo, dell'indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 32, c. 5, L. 183/2010, in misura pari a sette mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Nel porre la vicenda al vaglio della Suprema Corte di Cassazione, l'azienda ricorrente aveva denunciato violazione e falsa applicazione dell'art. 1, c. 1, D.Lgs. 368/2001, in relazione all'art. 360, c. 1 n. 3, c.p.c., dolendosi del fatto che il giudice del gravame, nel ritenere generiche le causali giustificative della clausola appositiva del termine contenute tanto nel primo quanto nel secondo contratto di lavoro, avesse, da un lato, imposto alla società un onere probatorio non dovuto ed assolutamente aggiuntivo rispetto alle previsioni legislative (concernente “il raffronto matematico tra produzione precedente e quella successiva”) e, dall'altro, ampliato la “ratio” della disposizione legislativa mediante una ricostruzione interpretativa non prevista dal legislatore nel suo disegno iniziale.

Più nel dettaglio, infatti, la Corte di merito aveva ritenuto di dover stigmatizzare l'utilizzo della descrizione “ragioni di carattere produttivo per supporto all'incremento volumi produttivi” quale causale giustificativa dell'apposizione del termine al primo contratto di lavoro, operando medesima valutazione anche con riferimento alla causale contenuta nel secondo contratto ed articolata con riferimento a “ragioni di carattere produttivo per Sutent cps - Clinical supply, Ipren e Medrol reformulation”.

In secondo luogo, come ulteriore motivo di ricorso, la datrice di lavoro denunciava la violazione e falsa applicazione dell'art. 8 Legge 604/66, in relazione all'art. 360, c. 1 n. 3, c.p.c, lamentando come la Corte d'appello, nel quantificare l'indennità risarcitoria, avesse fatto riferimento al parametro dell'ambiguità delle clausole, tali da aver lasciato il lavoratore in una situazione di estrema incertezza sulla valenza dei propri diritti.

La soluzione della Corte

Nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, il massimo organo della nomofilachia richiama il proprio orientamento per cui in tema di assunzioni a termine, il datore di lavoro ha l'onere di specificare in apposito atto scritto, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive, ossia le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che giustificano l'apposizione del termine finale (così, tra le altre, Cass. 11 febbraio 2015 n. 2680).

Su tali presupposti, del tutto correttamente la Corte di merito ha ritenuto non che l'azienda fosse tenuta a provare il raffronto matematico tra produzione precedente e quella successiva, bensì che le causali addotte in entrambi i contratti non soddisfacessero l'onere di specificazione.

Ciò in quanto: con riferimento alla prima causale giustificativa, l'incremento dei volumi produttivi rappresenta, senza dubbio, un'espressione estremamente vaga e praticamente impossibile da verificare in concreto, atteso che nemmeno si indicano quali siano i livelli di produzione; mentre, con riferimento alla causale inserita nel secondo contratto, la dicitura utilizzata risulterebbe del tutto incomprensibile all'uomo comune e, comunque, se, con uno sforzo di fantasia, la si volesse intendere riferita a prodotti aziendali, si tratterebbe di causale assolutamente inidonea a comprendere in qualche modo il collegamento fra l'assunzione a termine ed i prodotti stessi.

Secondo la Corte, dunque, l'opzione ermeneutica della norma denunziata è del tutto in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale che richiede l'indicazione specifica e puntuale della ragione giustificativa della clausola appositiva del termine, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (cfr., al riguardo, tra le altre, Cass. 10 maggio 2022 n. 14840).

Parimenti il secondo motivo di ricorso è da disattendere, poiché, nel quantificare l'indennità risarcitoria, il giudice di merito si è attenuto ai criteri di legge di cui all'art. 8 L. 604/66.

Ed invero, dopo aver operato una valutazione complessiva fondata, in primis, sui parametri delle dimensioni dell'azienda, sul numero dei dipendenti occupati e sulla durata dei contratti, la Corte di merito ha considerato la condotta datoriale consistente nell'aver inserito clausole ritenute ambigue e tali da lasciare il lavoratore in una situazione di estrema incertezza sulla valenza dei propri diritti, non senza ricordare, ad ogni buon conto, come in tema di contratto a termine, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell'indennità prevista dall'art. 32, c. 5, L. 183/2010, spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.

Cass. 31 gennaio 2023 n. 2894