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Crediti ricerca e sviluppo: intanto si proroga al 2023 il riversamento


23/11/2022 | Raffaello Lupi

Con la proroga al 31 ottobre 2023 della possibilità di rinunciare ai crediti d'imposta per la ricerca, senza sanzioni e interessi, il governo rinvia un tema spinoso. Le imprese, viste le piccole dimensioni, hanno scarsi margini per spese di ricerca esplorativa, dall'esito incerto. Era quindi prevedibile la presentazione di spese borderline, adottando un concetto ampio di ricerca.

Fonte: QuotidianoPiù

Agevolazioni R&S dalla propaganda al riversamento

La proroga del c.d. riversamento, in sanatoria, dei crediti d'imposta per ricerca e sviluppo, conferma la confusione e le ambiguità che fin dall'origine hanno accompagnato il credito d'imposta in questione. Quest'ultimo si inserisce in una più ampia strategia di innumerevoli bonus tutti autoliquidati dagli interessati, senza una vera partecipazione condivisa e un'assunzione di responsabilità da parte di un pubblico ufficio, che ne effettui un vaglio preventivo. Manca cioè sempre una partecipazione personalizzata all'iniziativa da parte dell'amministrazione competente, in questo caso alla ricerca e all'innovazione. Il MISE, infatti, si limita a dare indicazioni generali sulle procedure previste dalle leggi istitutive (art. 3 DL 145/2013), senza tempo ed energie che consentano di coinvolgerlo in un vaglio dei singoli progetti. Tuttavia i governanti non hanno rinunciato ai loro propositi di utilizzare la legislazione in funzione di comunicazione politica, com'è accaduto per la ricerca come per tante altre iniziative, tra cui Patent box, ACE, e altri contentini ad imprese di cui non si è capito, né riconosciuto il ruolo sociale generale né di entità su cui è esternalizzata la determinazione delle imposte. Leggendo la suddetta disposizione istitutiva del credito d'imposta si percepisce l'abituale tendenza legislativa a creare consenso e coesione sociale attorno a un mito della modernità come la scienza e la ricerca. Nell'immaginario collettivo esse occupano un posto di primo piano, sfiorando spesso la fantascienza, anche nel marketing delle aziende, che tendono a far figurare, nella pubblicità, dipartimenti di ricerca e sviluppo assenti nella realtà, dove rappresenterebbero soltanto un costo, senza ritorni economici.

Onerosità della ricerca e piccole dimensioni aziendali

Peccato però che nel generale nanismo del capitalismo italiano, sono infatti pochissime le aziende con dimensioni tali da poter sostenere costi di ricerca, specie se si considera che ormai la ricerca è sociale, fatta in gruppo, procedendo lentamente, e spesso in modo del tutto infruttuoso. Non a caso infatti la ricerca e le innovazioni sono una ricaduta civile di finanziamenti a fondo perduto da parte dei governi, per progetti a scopo militare, com'è stato per la rete internet. Per le aziende, molto più piccole e condizionate da equilibri di mercato non conviene affrontare la ricerca di base, salvo in sinergie con quella universitaria possibili però solo in contesti, come quello anglosassone, in cui le aziende sono molto più grandi e le università molto meno burocratizzate che da noi. Davanti alle opportunità contenute nella normativa sulle agevolazioni, le imprese hanno cercato di adattare la loro realtà, fatta soprattutto di innovazione di prodotto e di processo, alle prescrizioni legislative. Anche su questo piano però ci sono state una serie di criticità, legate proprio alla contraddizione tra l'idea diffusa di ricerca e la mentalità aziendale, soprattutto in realtà di piccole dimensioni. La ricerca infatti presuppone il sostenimento di costi a fondo perduto, assumendosi il rischio di cercare in una certa direzione e non trovare nulla. Non è una prospettiva accettabile in contesti, come quelli indicati sopra, di risicati equilibri economici tra costi e ricavi, tipici del capitalismo italiano a proprietà familiare. Quest'ultimo non poteva quindi che dimostrare una certa tendenza a trasformare in costi di ricerca e innovazione spese che avrebbe comunque sostenuto, per obiettivi concreti, con un tasso di incertezza molto minore rispetto a quello collegato alle spese di ricerca come sopra definite. Del resto, è anche normale che titolari e dirigenti di azienda, preoccupati degli equilibri economici, non amino spendere per cercare, ma per comprare quello che, verosimilmente, hanno già trovato.

L'imbarazzo nelle verifiche

Non serviva molta immaginazione per rendersi conto di quanto precede, ma la politica ha preferito gettare il cuore al di là dell'ostacolo continuando a cavalcare immagini edulcorate del concetto di ricerca. Trattandosi di bonus di applicazione abbastanza ristretta, a differenza di quelli fruiti da milioni di persone fisiche, il relativo monitoraggio amministrativo ha fatto intravedere le forzature con cui imprese nelle condizioni descritte al punto precedente hanno cercato di usufruire delle agevolazioni. A questo punto, dal mito delle aziende e della ricerca si è passati all'estremo opposto del sospetto e della diffidenza, delle sanzioni anche penali per truffa e indebita compensazione, passando per l'associazione per delinquere. Disposizioni introdotte per favorire lo sviluppo aziendale diventano motivo di criminalizzazione delle aziende, passando da un estremo all'altro con una doccia scozzese i cui effetti non si compensano, ma hanno un effetto socialmente destabilizzante sul (sempre più ridotto) mondo produttivo. Se quest'ultimo non ha infatti le produzioni e le dimensioni per investire nella costosa ricerca moderna, senza prospettive di ritorno economico sufficientemente probabili, non è un buon motivo per criminalizzarlo, giungendo a un effetto netto negativo sull'economia. Il legislatore, come tutte le persone mediamente informate su economia e socialità, ben sapeva che, quanto a ricerca effettiva, nel sistema produttivo italiano c'era poco da incentivare, ma che le agevolazioni avrebbero fatto venire l'acquolina in bocca a molti. Era cioè prevedibile che sarebbero state presentate, come ricerca e innovazione, situazioni, diciamo così, borderline, anticipate al punto precedente, adottando un concetto ampio di ricerca, comprensivo degli acquisti di beni strumentali innovativi, oppure comprensivo di rilevazioni di dati sul prodotto e sul mercato di operatività delle aziende. Si sapeva che queste ultime avrebbero presentato in buona misura come ricerca attività di un certo contenuto tecnologico che probabilmente avrebbero svolto comunque, o avrebbero svolto in modo leggermente diverso. Del resto è intuitivo che la presenza dei bonus distorce i comportamenti, spingendo a modificarli, con variazioni sul tema, in modo da renderli ammissibili all'agevolazione. La politica si è resa conto di avere una certa corresponsabilità in quanto sopra, e questo spiega la misura del riversamento, una specie di ravvedimento operoso senza sanzioni. Essa non elimina tuttavia la meritevolezza della (vera) ricerca, in un certo senso il suo suddetto “mito”, né le incertezze su come realizzarla in concreto, persino tra coloro che dovrebbero essere ricercatori. Per ora si è preso tempo, ma forse le alternative messe a disposizione dal riversamento agli operatori sono troppo rigide come vedremo al punto seguente.

Necessità di una gestione graduata delle verifiche sulla ricerca

Il riversamento, infatti, da una parte è troppo benevolo e dall'altra è troppo rigoroso. Nei confronti di chi ha camuffato per costi di ricerca spese di palese altra natura, oppure ha inserito fatture fittizie di appaltatori esterni di ricerca extra moenia il riversamento è persino troppo benevolo, perché qui si trattava di crediti palesemente indebiti. Lo stesso per chi ha fatto passare come spese di ricerca l'acquisto di beni ad alto contenuto tecnologico, ma prodotti in serie dai rispettivi fornitori. Già però nell'eventualità di una vendita su ordinazione di un macchinario con determinate specifiche di produzione, personalizzato esattamente sulle necessità produttive di una determinata impresa, con necessità di un apposito lavoro di adattamento, una certa misura di spesa di ricerca e innovazione non può essere negata. Obbligare costoro a una scelta tra rinunciare al beneficio oppure rischiare sanzioni onerosissime, anche penali, appare comunque squilibrato. Qui infatti ci troviamo di fronte a imprese che hanno semplicemente cercato di fronteggiare, sia pure per avere un vantaggio, un'indeterminatezza del concetto di ricerca e innovazione. Lo stesso per le aziende che hanno svolto rilevazioni statistiche o costruito modelli di comportamento della propria clientela e del proprio mercato, magari per costruire algoritmi di intelligenza artificiale. La vera soluzione business friendly in questi casi è sancire l'inapplicabilità del reato di indebita compensazione e riportare alla misura ragionevole del 30% la sanzione amministrativa per indebita fruizione del credito. Si toglierebbe così la spada di Damocle di sanzioni draconiane e si lascerebbe la possibilità alle aziende di sostenere serenamente le proprie tesi con le competenti autorità, senza conseguenze destabilizzanti in caso di esito negativo. Sono infatti numerosi e interdipendenti i parametri per la valutazione delle ricerche, trattandosi delle prospettive delle medesime, del loro risultato e dei criteri di calcolo dei costi all'interno del progetto. Se veramente si desidera la crescita imprenditoriale di aziende in cui, per le piccole dimensioni, la ricerca è modesta, occorre dar loro la possibilità di discutere, senza una pistola puntata alla tempia, la validità dei propri progetti sul piano della ricerca scientifica. Se il riversamento è una via d'uscita per chi ci ha provato, bisogna comunque lasciare a chi è convinto in buona fede che i propri progetti fossero ricerca la possibilità di far valere serenamente le proprie carte nel contenzioso amministrativo e giurisdizionale. Saper fare politica industriale, in ultima analisi, significa sapersi astenere dagli estremi, non ondeggiare tra bastone e carota, come sembra stia avvenendo nel caso in esame.

Art. 3 DL 145/2013